Ida e Lina giunsero a Ravensbrück l’11 ottobre 1944 dopo non si sa quanti giorni chiuse in un carro bestiame sigillato. La testimonianza di Lina ripercorre tuti gli istanti successivi all’arrivo nel campo: “Finalmente arrivammo a Ravensbrück, mi sembrava immenso. C’erano tante baracche. Ci condussero in uno stanzone molto grande; cominciarono a spogliarci completamente. Mia madre aveva agganciato l’orologio da polso allo spallino della sottoveste, forse per comodità: pensando che lo volesse nascondere, la picchiarono. Ci portarono in un altro stanzone dove c’erano delle docce: ci osservavano da uno spioncino mentre ad intervalli facevano uscire dalle docce anche del gas. Dissi a mia madre che non respiravo. Incominciò a picchiare forte sui polmoni per farmi reagire. Rimanemmo nello stanzone fino alla mattina. Distribuirono le divise: un grembiule rigato, un paio di zoccoli ed una fascia bianca con un triangolo rosso (il triangolo nero era per i deportati comuni). Sotto c’era impresso un numero: ormai eravamo diventate dei numeri. Il mio era 67390, quello di mia madre era 67389… lei era sempre davanti a me”. Private dei vestiti, di tutti gli averi e dell’identità, ridotta ormai ad un numero, le due donne furono assegnate ad una stessa baracca. Tutte le mattine, zappa e badile alla mano, Lina e Ida, percorrendo chilometri e chilometri a piedi, venivano portate a costruire trincee in un campo. A mezzogiorno veniva dato loro un pezzo di pane e una brodaglia, che, a volte, i responsabili del campo volontariamente “invece di rovesciarla nella scodella […] vuotavano per terra e ridevano” (L. Polizzi, “Bisognava resistere”, in “Donne, Resistenza e Cittadinanza politica. Avvenimenti, passioni, emozioni, delusioni”, a cura di M. Minardi, Parma, Tipolitografia Benedettina Editrice, 1997, p. 76). Oltre a questa, tante altre furono le umiliazioni: “Ci facevano spogliare nude e passare davanti ad un gruppo di tedeschi; ci facevano alzare le mani, ci guardavano le mani ed i denti e poi ridendo dicevano: «Niente lavorare italiane». Una volta ci portarono in paese; i bambini incominciarono a sputarci addosso ed a tirarci i sassi. Ci meravigliammo che così piccini potessero essere tanto crudeli con noi. […]. Avevano cani da guardia addestrati a violentare le deportate. Non si poteva fuggire, il recinto era percorso dalla corrente. C’era il ‘bunker’ sotterraneo dove lasciavano le persone settimane intere, quando le poverette uscivano non vedevano neanche la luce e cadevano a terra” (L. Polizzi, “Bisognava resistere”, in “Donne, Resistenza e Cittadinanza politica. Avvenimenti, passioni, emozioni, delusioni”, a cura di M. Minardi, Parma, Tipolitografia Benedettina Editrice, 1997, pp. 76-77). Dalla testimonianza di Lina emerge la grande forza d’animo della madre, che cercava di infondere coraggio nelle altre prigioniere e le esortava a resistere: “Mia madre ci ha aiutato molto. […]. Ci faceva cantare sul lavoro […]. A volte crollavamo e mia madre ci diceva: «Tenetevi su, non lasciatevi andare moralmente perché allora è finita! Io sono la più vecchia, ma mi faccio forza perché dobbiamo tornare in Italia; non so se ci crederanno, ma noi dovremo raccontare!»” (L. Polizzi, “Bisognava resistere”, in “Donne, Resistenza e Cittadinanza politica. Avvenimenti, passioni, emozioni, delusioni”, a cura di M. Minardi, Parma, Tipolitografia Benedettina Editrice, 1997, p. 77). Lina nella sua memoria ricorda anche di quando perse ogni speranza di sopravvivere: “Un giorno caddi, non ce la facevo più. Mi portarono in un ‘rivir’, una baracca in cui venivano abbandonate le persone ormai deboli. Per entrare nel ‘rivir’ bisognava avere 40 gradi di febbre. Ero coperta di piaghe: me le fasciavano con della carta. Quando una stava morendo tutte le erano sopra sperando che avesse addosso la maglia od un pezzo di pane. Venni a sapere che mia madre aveva ammucchiato delle fettine di pane per darle in cambio di mie notizie. Fu scoperta: la legarono ad un albero per un giorno ed una notte. Da allora non seppi più nulla, non vidi più nessuno” (L. Polizzi, “Bisognava resistere”, in “Donne, Resistenza e Cittadinanza politica. Avvenimenti, passioni, emozioni, delusioni”, a cura di M. Minardi, Parma, Tipolitografia Benedettina Editrice, 1997, p. 77-78). Fortunatamente di lì a poco il campo fu evacuato e Lina e Ida furono finalmente libere. Madre e figlia si rividero solamente quando Lina fece ritorno a Parma e seppe che in ospedale erano ricoverati sia la madre, sia il fratello. “Noi comunque eravamo ridotti pelle e ossa”, scrive Lina, “Io ero 28 chili, mia madre, che alla partenza pesava quasi un quintale, era 29 o 30 chili, mio fratello, nonostante fosse alto un metro e ottanta, pesava 31 o 32 chili” (L. Polizzi, “Bisognava resistere”, in “Donne, Resistenza e Cittadinanza politica. Avvenimenti, passioni, emozioni, delusioni”, a cura di M. Minardi, Parma, Tipolitografia Benedettina Editrice, 1997, p. 78).