Primo Polizzi fu arrestato dalla Brigata Nera nell’ottobre del 1944. Primo dalla montagna era sceso in città con il compagno di distaccamento Sergio Barbieri con l’intento di seguire e controllare gli spostamenti di una donna conosciuta a Cozzano, sospettata di essere una spia.
Una volta giunti a Parma, i due uomini decisero di fermarsi a casa di Sergio, in Viale delle Rimembranze n. 36, per fare visita ai genitori di Barbieri. Lì entrambi – insieme alla madre e al padre di Sergio – furono arrestati e condotti nella sede della Brigata Nera, situata in Strada Cavestro (allora Via Walter Branchi).
Primo ricorda che, durante il tragitto verso la sede della Brigata Nera, uno dei fascisti che lo avevano arrestato voleva portare lui e Sergio in Cittadella per fucilarli.
Primo ricorda anche che, subito dopo l’arresto, mentre camminava verso Strada Cavestro, mettendosi le mani in tasca, fortunatamente riuscì a sbriciolare un messaggio che aveva ricevuto da una compagna.
Una volta giunti a destinazione, Primo e Sergio furono sottoposti al primo interrogatorio: decisero di sostenere davanti all’inquisitore di essere scesi dalla montagna per insoddisfazione rispetto alla vita che conducevano e per la volontà di entrare nell’esercito. Rognoni, l’uomo che aveva condotto l’interrogatorio, fece firmare ai due partigiani una domanda per entrare volontari nell’esercito.
Primo e Sergio, confidando nella buona riuscita del loro piano, stavano già progettando di trovare un modo per fuggire dall’esercito. Purtroppo per loro, tuttavia, quello era solo l’inizio del percorso di detenzione e di internamento.
All’interno della sede della Brigata Nera Primo e Sergio non furono sottoposti a sevizie e torture, ma furono comunque umiliati: furono completamente rasati a zero.
Il 10 novembre 1944 anche Primo Polizzi e Sergio Barbieri furono portati a Palazzo Rolli, la sede della S.D. (polizia di sicurezza) tedesca. Lì iniziarono gli interrogatori e, insieme ad essi, le botte e le torture: Primo in un’intervista rilasciata a Lia Barone, descrive il processo di estraniamento messo in atto per “creare un vuoto” e reggere meglio al dolore infertogli dalle percosse: “Alla SD… dopo le prime botte, come dire…, vedevo tutto dal di fuori… come se non succedesse a me… […]” (“Primo Polizzi. Il prigioniero che canta. Intervista sulla deportazione”, p. 66); “Contemporaneamente con il mio cervello cercavo di uscire da quella situazione… per creare il vuoto” (“Primo Polizzi. Il prigioniero che canta. Intervista sulla deportazione”, p. 67). La letteratura e il cinema rappresentavano per Primo fondamentali propulsori per avviare il processo di estraniamento e creare un distacco tra sé stesso e la sofferenza patita: “mi venne in mente” – racconta Primo – “un romanzo intitolato Il prigioniero che canta, non ricordo chi fosse l’autore… Era la storia di un condannato a morte, che la notte precedente l’esecuzione riusciva a distaccarsi dal corpo, vivendo fuori dalle sbarre gli ultimi istanti della sua vita… Come del resto, in seguito, me ne vennero in mente tanti altri di romanzi. Ciò serviva per scaricare la tensione accumulata… per svuotarmi. Durante la prigionia, mi sarei poi ricostruito i film che avevo visto quando ero ancora libero” (“Primo Polizzi. Il prigioniero che canta. Intervista sulla deportazione”, p. 67).
- Testimonianza di Primo Polizzi, intervista di Lia Barone
Video racconto realizzato all’interno del progetto “Nei luoghi della guerra e della Resistenza a Parma”