Primo Polizzi giunse nel campo di Bolzano il 24 gennaio 1945. Lì i giorni trascorrevano “tra l’ozio e la fame” (“Primo Polizzi. Il prigioniero che canta. Intervista sulla deportazione”, p. 70). L’unica fonte di sostentamento era una brodaglia ed un pezzetto di pane. A Bolzano Primo non si isolava, anzi, intratteneva relazioni sociali con molti dei prigionieri, che gli stavano sempre intorno anche per l’attrattiva suscitata dal suo ruolo di comandante di distaccamento. Era suo compagno di prigionia anche l’amico Walter Bianchi, un compagno di scuola ritrovato da Primo i primi di gennaio, durante il trasferimento nel carcere di Reggio Emilia. Il primo febbraio 1945 Polizzi partì da Bolzano e fu fatto salire in un vagone bestiame. Quattro giorni dopo giunse a Mauthausen.
“Dopo quattro giorni arrivammo a Mauthausen. Non ricordo se fosse giorno o notte. Scendiamo comunque dal vagone, che è buio. C’è molta neve ghiacciata. Non ci fanno percorrere la strada, bensì una scorciatoia… un vialone che porta all’ingresso del campo, direttamente dalla ferrovia. È un sentiero che si inerpica per la scarpata, passa in mezzo ad un bosco ed arriva su al castello… alla fortezza… È stato faticosissimo… Hai subito la prima impressione. Senti parlare… gridare… tutti in tedesco. I cani che abbaiano, ce ne sono un’infinità. Veniamo da tutt’Italia… I fari, queste zone di buio, di ombra… dopo essere stati per tanto tempo chiusi. Stanchi inciampare per queste salite ghiacciate, maledizioni… uno sta per cadere, si attacca all’altro, che bestemmia… tutti i dialetti di questo mondo! Arriviamo in un gran cortile, ci sono dei garage… una grande scalinata! «Sembra lo scalone dell’Aida», dice qualcuno… Ci fermiamo, finché comincia a schiarirsi un po’ il cielo. Poi saliamo la scala, entriamo dal portone, voltiamo a destra… ancora a sinistra, e ci troviamo su una specie di terrazzo, in cima al bastione. […]. Siamo in collina, in fondo intravedo il Danubio che continua a scorrere lento, marrone, color terra… tutta questa neve bianca, bellissima. «Qui – è un pensiero comune – ci danno il lavoro e da mangiare». Così assorto, vedo questi camini che fumano… C’è un odore strano. Penso che, con ogni probabilità, provenga dalle cucine” (“Primo Polizzi. Il prigioniero che canta. Intervista sulla deportazione”, pp. 72-73).
Con queste parole Primo descrive il suo ingresso nel campo di Mauthausen.
Subito dopo, insieme ai prigionieri arrivati insieme a lui, fu spogliato di tutto, fu rasato in ogni parte del corpo e ricevette un triangolo rosso e due strisce su cui era stato scritto il numero di matricola 126362, una da attaccare al petto e una da attaccare alla gamba.
Primo fu inserito nelle squadre che avevano il compito di trasportare massi di pietra da una cava fino alla sommità di una scalinata pericolante, dove i blocchi venivano ammassati. Il lavoro era massacrante: “Salivamo in fila indiana ed i tedeschi si divertivano a buttarci giù”. Talvolta qualcuno moriva durante il trasporto dei massi e i tedeschi lo facevano rotolare giù dalla scalinata perché travolgesse altri quattro o cinque uomini; gli facevano fare quello che loro chiamavano “il volo dell’angelo” (“Primo Polizzi. Il prigioniero che canta. Intervista sulla deportazione”, p. 76).
Ai tormenti procurati dal lavoro si aggiungevano quelli patiti per volontà del kapò: Primo ricorda che una notte egli stesso e i compagni furono costretti ad uscire nel piazzale antistante la baracca, mentre nevicava e c’erano venti gradi sotto zero, e ricevettero l’ordine di correre; alcuni stramazzarono a terra e vennero scavalcati dagli altri prigionieri, obbligati a portare a compimento quell’inutile supplizio. Un’altra notte, il kapò colpì i prigionieri con dei getti d’acqua, “forse per punirci… forse per divertirsi”, ipotizzò Primo (“Primo Polizzi. Il prigioniero che canta. Intervista sulla deportazione”, p. 77).
Mentre il deperimento fisico e morale corrodeva sempre di più l’animo, Primo riusciva a trovare la forza di resistere grazie a pochissimi appigli: nel ricordo, prima di addormentarsi, di trame di film che aveva visto al cinema prima della deportazione; nel pensiero del padre, che sapeva essere stato deportato a Mauthausen e che sperava ogni giorno di poter ritrovare; nella consapevolezza del perché si trovasse nel campo; nei contatti con gruppi di partigiani che discutevano della situazione politica; nell’orgoglio e nella strenua volontà di sopravvivere e di non cadere morto nelle mani dei tedeschi: “Avevo la convinzione di farcela. Infatti, nei giorni immediatamente precedenti alla liberazione, dicevo che mi bastava arrivare al di là del confine. «Se muoio di là» – pensavo – «non mi interessa, ma io qui non voglio morire. Per non lasciare in mano ai tedeschi le mie ossa»” (“Primo Polizzi. Il prigioniero che canta. Intervista sulla deportazione”, p. 82). Un pensiero, invece, che evitava era quello del cibo: “La maggior parte [dei prigionieri] parlava di cibo. Negli attimi di pausa dal lavoro, a volte mentre mangiavano. Raccontavano le mangiate che facevano a casa, o preconizzavano le scorpacciate che avrebbero fatto al ritorno. «Mangerò qui, mangerò là, mi farò fare questo, mi farò fare quello!». Discorsi che non ho mai accettato. Mi avvicinavo a quelli che parlavano di ben altro: «Saranno arrivati a Bologna? Dicono che siano arrivati a Ravenna…» (“Primo Polizzi. Il prigioniero che canta. Intervista sulla deportazione”, p. 82).
Nel marzo del 1945 Primo Polizzi fu trasferito nel sottocampo di Güsen. All’arrivo, Manetto capì subito che la situazione si faceva ancor più difficile: le baracche erano ancora più squallide di quanto già non fossero a Mauthausen e nel sottocampo si aggiravano come ombre i prigionieri, smunti, smagriti e orami ridotti a scheletri. “A Güsen” – raccontò Primo – “la prima sensazione è stata che se non fossero arrivati a liberarci al più presto, ci avrei lasciato le penne” (“Primo Polizzi. Il prigioniero che canta. Intervista sulla deportazione”, p. 79).
A Güsen Primo continuò a cercare il padre, ma dopo breve tempo smise definitivamente, per paura di subire la stessa sorte dell’amico e compagno Sergio Barbieri, lasciatosi morire dopo aver ricevuto la notizia della morte del padre Giuseppe, deportato insieme a lui a Mauthausen. Ci fu, tuttavia, un incontro che generò stupore e, insieme, terrore in Primo, quello con l’amico di infanzia Walter Bianchi: la felicità per il fortuito incontro fu immediatamente guastata dalla vista del corpo scheletrico dell’amico, in cui facilmente Primo poteva specchiarsi e vedere l’immagine riflessa del suo stesso corpo.
A Güsen Primo, insieme all’amico Walter, doveva svolgere un lavoro logorante: erano incaricati, insieme ad altri prigionieri, della costruzione di gallerie che servivano ad ampliare le officine della Messerschmitt. Dopo il rientro dal lavoro, Primo non aveva più forze e il suo pensiero era soltanto quello di mangiare e di dormire: “Alla sera, al ritorno, eravamo degli stracci. Ovviamente non avevo più la possibilità di mantenere certi contatti. Quel minimo di vita che eravamo riusciti a costruirci a Mauthausen, non esisteva più. C’era solo la preoccupazione di mangiare e di dormire, per cercare di recuperare le forze” (“Primo Polizzi. Il prigioniero che canta. Intervista sulla deportazione”, p. 88).
Il 5 maggio 1945 i prigionieri di Güsen furono liberati dagli americani e Primo finalmente poté uscire dal campo.
Dopo una lunga riabilitazione seguita al suo ritorno a casa, Primo si spese moltissimo per tramandare agli studenti delle scuole il racconto della sua esperienza di deportato. Si trattava, infatti, di un’esperienza che non avrebbe mai potuto cancellare dai suoi ricordi e che rimaneva sempre fissa nella sua mente. Così si legge in un frammento dell’intervista a Primo Polizzi già più volte citata: “Vedo le cose … in un modo diverso rispetto alla gente comune, rispetto a tutti coloro che non hanno vissuto là. Io sono in questo mondo…, ma, non so come dire… ci sono e non ci sono. So di essere vivo… perché vivo. Ma vivo molto al di fuori… anche gli avvenimenti esterni mi coinvolgono molto relativamente. […]. Ci sono certi momenti in cui mi sento ancora là. […]. Soprattutto in certi periodi stagionali. […]. D’inverno. Perché, quando ero là, era inverno. Quando c’è la neve, la neve sfatta ed acquosa però, non la neve bella, bianca, appena caduta” (“Primo Polizzi. Il prigioniero che canta. Intervista sulla deportazione”, pp. 100-101).