Carolina Blum, ebrea alsaziana, giunse a Sorbolo, proveniente da Genova, nel settembre 1943 e dimorò – dietro il pagamento di una somma di denaro, in qualità di “sfollata” – presso l’abitazione di proprietà della famiglia Fontana-Salvarani, situata in via Gramsci n. 25, allora via Roma/via Marconi. Carolina dovette sottostare, come moltissimi altri ebrei stranieri residenti nel parmense, alle norme che regolavano l’“internamento libero”, una particolare forma di internamento già applicata dal 1940 in Italia per nuclei di civili deportati e per “sudditi nemici” – soprattutto britannici e francesi – e poi estesa agli ebrei stranieri, che prevedeva rigide norme di comportamento e limitava grandemente la libertà personale e la disponibilità economica degli individui. Gli “internati liberi” non potevano uscire prima delle 7 di mattina e dovevano rientrare a casa prima delle 19 nei mesi invernali e prima delle 20 nei mesi estivi; non potevano oltrepassare il perimetro segnato dai confini del comune di residenza; avevano l’obbligo di presentarsi tre volte al giorno presso gli uffici comunali; non potevano tenere con sé passaporto e documenti personali; non potevano possedere apparecchi radio; non potevano né parlare di politica né leggere giornali stranieri; dovevano sottoporre tutta la corrispondenza postale al controllo della Polizia; prima di ospitare in casa familiari dovevano richiedere un’autorizzazione alla Questura; avevano l’obbligo di non possedere più di 100 lire.
Questa doveva essere la vita anche di Carolina Blum, “internata libera” nel Comune di Sorbolo, straniera e sola.