Carolina Blum si trovava nella sua abitazione, situata a Sorbolo, in via Gramsci (allora via Marconi/via Roma), quando, l’11 dicembre 1943, fu arrestata e trasportata nel campo di concentramento di Monticelli Terme. Nessun altro ebreo fu prelevato da Sorbolo insieme a lei: tutti gli ebrei stranieri erano già fuggiti; nonostante ciò, la Repubblica Sociale Italiana riuscì ad accaparrarsi tutti i loro beni, come si legge in M. Minardi, Invisibili. Internati civili nella provincia di Parma 1940-1945, Bologna, Clueb 2010, pp. 188-189, dove viene in parte riportata una lettera del commissario prefettizio di Sorbolo, datata 28 dicembre 1943, conservata presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma: “Le autorità recuperarono «tutte le somme che si trovano depositate presso codesto Ufficio postale per conto degli ebrei ex jugoslavi internati a Sorbolo», da ritenersi «sequestrate a disposizione della Superiore Autorità Governativa Repubblicana»”.
Non abbiamo notizie su come si svolgesse l’esistenza di Carolina Blum nel campo di Monticelli Terme, ma la testimonianza di Dora Klein, ebrea polacca internata libera a Borgo val di Taro e trasferita anch’ella a Monticelli, sopravvissuta alla Shoah, può consentirci di immaginare quale fosse la vita di tutte le donne internate nel campo. Nel suo diario intitolato “Vivere e sopravvivere” (Milano, Mursia 2001) Dora racconta che gli spazi comuni in cui le internate trascorrevano il tempo erano costituiti da una sola stanza dotata di una vecchia stufa, dove le donne “consumavano i pasti e chiacchieravano sempre a bassa voce per non creare confusione e non essere redarguite dal direttore della comunità” (D. Klein, Vivere e sopravvivere, Milano, Mursia 2001, p. 145). Dalla testimonianza di Dora emerge anche la saltuaria presenza nel campo di soldati tedeschi: “nelle ore pomeridiane poteva succedere (ed era capitato più volte) che l’incursione di un manipolo di tedeschi, nel breve spazio di pochi minuti, riuscisse con urla insensate, a spaventarci anche più del necessario. […] Quelle brevi intrusioni ci lasciavano un sottile tremore addosso, non tanto per il fatto in sé, quanto per ciò che esse facevano presagire per il futuro” (D. Klein, Vivere e sopravvivere, Milano, Mursia 2001, pp. 147-148). Dora Klein nella sua testimonianza aggiunge che l’unico sconforto per le internate derivava da quelle sporadiche occasioni in cui alcuni carabinieri compiacenti portavano alle detenute il castagnaccio, una pietanza prelibata e ricca di nutrienti: “Per placare i morsi della fame ricorrevamo al castagnaccio, considerato a quei tempi, e non solo da noi, un dolce squisito. Queste fette prelibate erano fornite da una vicina trattoria e portate dentro da compiacenti carabinieri in servizio presso di noi” (D. Klein, Vivere e sopravvivere, Milano, Mursia 2001, p. 148).