La dignità di Armando e di Roberto Bachi fu calpestata e annientata a San Vittore. Padre e figlio, stipati in una cella del penitenziario, pativano insieme il dolore generato da violente percosse e traevano forza unicamente dalla vicinanza dei loro corpi. Un giorno, però, Armando fu separato dal figlio: a causa di un’infezione al braccio insorta come conseguenza delle ferite procurate dalle botte fu ricoverato all’ospedale Niguarda, dove veniva sottoposto ad una continua vigilanza. Durante il ricovero, Armando avrebbe potuto cogliere un’opportunità di fuga, ma rifiutò per non abbandonare il figlio, rimasto solo in carcere. Armando non sapeva che, proprio in quell’arco di tempo, Roberto era stato fatto uscire da San Vittore: la cella allora aveva lasciato il posto ad un altro luogo di dolore, il binario 21 della stazione Centrale di Milano (aggiungere altre testimonianze di ebrei detenuti a San Vittore poi tradotti al binario 21). Roberto il 6 dicembre 1943 salì sul convoglio n. 5, diretto ad Auschwitz.
Le speranze di Armando di rivedere il figlio, per le quali aveva sacrificato la sua stessa salvezza, si infransero per sempre. Quando rientrò in carcere non trovò più il figlio; condivise gli ultimi giorni di prigionia con Bianca Maria Morpurgo, una dei pochi ebrei che, partiti dal binario 21, sopravvissero alla Shoah, che in una lettera ha lasciato una testimonianza di Armando Bachi: “Due o tre giorni prima della partenza del nostro convoglio, il generale è rientrato alle carceri di S. Vittore in buone condizioni e perfettamente ristabilito; fu in tale epoca che lo conobbi e che passai con lui alcune ore in conversazione”. Armando, insieme a Bianca Maria, raggiunse il binario 21 della stazione Centrale di Milano il 30 gennaio 1944 e, salito sul convoglio n. 6, dopo una settimana di viaggio, chiuso in un carro bestiame in condizioni al limite dell’umana tolleranza, arrivò ad Auschwitz.