Armando Bachi giunse ad Auschwitz-Birkenau il 6 febbraio 1944 e, in quanto uomo di età ormai già avanzata, non ebbe alcuna speranza di sopravvivere nel campo: quello stesso giorno fu avviato alle camere a gas e morì asfissiato.

Il figlio Roberto arrivò ad Auschwitz-Monowitz l’11 dicembre del 1943: come si legge in alcune lettere scritte da compagni di prigionia, il ragazzo, che allora aveva solo quattordici anni, passò gran parte della sua permanenza nel campo in ospedale, dove, come rivela il Dott. Aldo Moscati, si occupava “di redigere le cartelle cliniche, ma la sua posizione in ospedale era sempre quella di ricoverato, non di infermiere”. Il Dottore a questa informazione ne aggiunge un’altra dal sapore molto amaro: “Una sera parlando come al solito con suo nipote, lo vidi depresso e molto pensieroso, mi disse più tardi che era stato messo in lista per essere trasferito in altro campo dopo la visita passatagli dal capo campo. Il Dott. Levy mi disse Roberto che non aveva potuto fare niente. Tre sere dopo tornai come al solito per salutarlo, ma più non lo vidi”. Da quel giorno si persero per sempre le tracce di Roberto: probabilmente, non avendo superato la selezione, fu mandato alle camere a gas. Quello che è certo è che il ragazzo, che all’ingresso ad Auschwitz aveva ricevuto il n. di matricola 167943, morì nel campo in data ignota.

Da una testimonianza riportata in una lettera da Robert Francès, compagno di prigionia di Roberto Bachi, si evince come il ragazzo condividesse con i compagni la storia del padre, raccontandone, immaginiamo, le eroiche imprese e riempendosi il petto di orgoglio: “Mi raccontò la storia di suo padre, il generale Bachi, e la sua”.

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